Riproponiamo l’intervista, firmata martedì 3 gennaio da Daniele Bellasio sul quotidiano “Il sole 24 ore” (p. 6), al porporato ambrosiano, amico di lunga data del Papa emerito.

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Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, fu nominato proprio da Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, alla guida della più grande diocesi del mondo nel 2011, ma la loro amicizia e la loro consonanza intellettuale era già ben più longeva, risaliva alla rivista Communio, quella anche di Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar, e a infiniti dialoghi sulla Chiesa, sulla teologia, sulla storia e sulla filosofia. Scola è considerato uno dei cardinali che in modo più sincero hanno raccolto e proseguito il pensiero di Papa Ratzinger.

Eminenza, qual è il suo ultimo ricordo personale di Benedetto XVI?
«L’ultima volta che l’ho visto sarà stato otto, dieci mesi fa. Era lieto, sereno, molto smagrito, i suoi occhi vivi, sempre con una memoria fortissima, molto superiore alla mia che ho 14 anni meno di lui. Sprigionava, dentro la sua fragilità, una personalità forte sostenuta
da una grande fede e da una equilibrata ragione».

Qual è stato il più importante insegnamento del suo pontificato?
«Centrando la vita personale, ecclesiale e sociale sull’avvenimento di Gesù Cristo incontrabile oggi nella comunità cristiana si può andare a fondo a ciò che la storia ci va man mano proponendo e si può costruire un’attitudine di vita buona per la persona e per la società intera».

È stato spesso considerato il Papa professore. È una definizione giusta?
«No, è una definizione molto parziale», sorride Scola. «È stato un grande professore ma non ha fatto il Papa da professore, ha fatto il Papa con l’attitudine di un cristiano con questa enorme responsabilità sulle spalle che lo conduceva a cercare sempre le ragioni della fede per mostrarne la convenienza e l’attualità per gli uomini di oggi. Ha affrontato con coraggio tutti i problemi, anche i più scottanti. E ha imperniato il suo magistero su quello che è stato un documento preziosissimo, la Fides et ratio».

Un altro grande binomio ratzingeriano è quello composto da libertà e verità.
«Ah, certo, certo. Questo è un elemento fondativo di tutta la sua vita, di tutto il suo insegnamento teologico e di tutta la sua pastorale. La verità è la proposta che Dio stesso fa, evidenziandola nella figura di Gesù, a una libertà. La Chiesa ha sempre problemi quando non sa proporsi alla libertà. L’uomo si muove solo quando la sua libertà è provocata e Ratzinger ha sempre scommesso sulla libertà. La libertà, quando s’incontra con la verità, si mobilita».

Benedetto XVI ha dedicato le sue ultime opere di riflessione proprio alla figura, alla persona di Gesù. Perché secondo lei?
«Perché ha colto molto bene una difficoltà non solo della società, ma anche della Chiesa e degli uomini di Chiesa, quella di non riuscire a trattare Gesù come l’orizzonte integrale nel quale affrontare i problemi, le situazioni difficili, le sofferenze, le gioie, le angustie, come diceva il Concilio Vaticano II, che caratterizzano il nostro tempo. Gesù rischia di diventare anche per noi, per me, per uomini di Chiesa un pre-testo cui si fa riferimento per prendere iniziativa ma poi lo si chiude tra parentesi, per parlare d’altro. Che il cristiano sia dentro la storia è un fattore decisivo del pensiero di Ratzinger, però egli è dentro la storia con il criterio che Gesù, la Parola di Dio, la tradizione e il magistero continuamente ci ripropongono».

E come si conciliò tutto ciò con il suo ruolo di prefetto per la dottrina della Chiesa?
«La libertà dell’uomo è finita e agisce quando è mossa. Se è mossa dalla verità, cioè da un’adesione del mio modo di essere e di vivere, di pensare la realtà, la libertà si compie al meglio. Perché la libertà non è solo la libertà da, di essere sempre più me stesso, è anche la libertà per, per costruire. E la verità, per Papa Benedetto e per i cristiani, Gesù come avvenimento di salvezza, è la provocazione che la libertà non può non sentire come decisiva».

Ci racconta come lei ha interpretato il rapporto tra Ratzinger e Wojtyla?
«La grande amicizia tra i due è stata determinante. Wojtyla era una personalità straordinaria, un genio, ma anche un uomo umile: aveva capito di aver bisogno veramente e profondamente di un collaboratore capace di un pensiero solido e robusto, nella tradizione della Bibbia e con il senso della storia come fu Ratzinger. Tanto che Giovanni Paolo II non lo lasciò mai andare via, “in pensione”… Una conoscenza e una stima reciproca dove si è vista l’intelligenza creativa di Wojtyla accompagnata da una sapiente competenza e da una disposizione totale al servizio di Ratzinger. Poi la continuità di Benedetto XVI con Giovanni Paolo II è stata di un’evidenza palmare».

La politica e l’economia. Ratzinger ha saputo e voluto entrare nella carne viva della contemporaneità anche con argomenti capaci di provocare, nel senso migliore del termine. Qual è il suo lascito per comprendere i tempi e le regole del mondo di oggi?
«La politica deve rispettare che esiste un fattore che va oltre la politica a cui anche la politica deve obbedire. La politica non è Dio e quando la politica assurge di fatto a criterio unico e ultimo di giudizio su tutto diventa un potere che perde autorevolezza e quindi può produrre anche inconvenienti pesanti come la storia almeno degli ultimi cento anni dimostra anche in Europa. Ratzinger in questo senso è spesso intervenuto con contributi molto apprezzati anche fuori dall’ambito ecclesiale. Il punto di fondo è che la politica si senta al “servizio di”… e non il giudice di tutto. E poi c’è il grande apporto di Papa Benedetto quando ha chiarito che “non l’assenza di compromesso, ma il compromesso nobile – cum promitto, prometto a tutto il popolo – è il cuore della politica”. Questa sua tesi sarebbe di grande utilità anche nel presente».

E per l’economia?
«Oltre al realismo nella valutazione del rapporto tra economia e finanza, sottolineerei il rispetto della corrispondenza tra due principi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa: la proprietà privata come garanzia anche per il singolo individuo e la destinazione universale dei beni».

Per lei che cos’è stato il momento della “rinuncia” di Benedetto XVI?
«Il frutto di quello che un grande uomo ha detto al momento dell’elezione, quando si è definito “umile servitore nella vigna del Signore”. Non conosco i motivi espliciti, diretti della rinuncia, ma la rinuncia all’esercizio del ministero petrino probabilmente è la conseguenza di una somma di fattori difficili per noi da interpretare, ma che lo hanno condotto a fare questo passo che avrà conseguenze storiche».

Che cosa non dimenticherà mai di Joseph Ratzinger?
«L’amicizia e la paternità nei miei confronti, non meritata in sé e per sé da parte mia, ma da parte sua piena di delicatezza, tatto, iniziativa, anche di qualche elemento di correzione. Poi è impossibile dimenticare che cosa ha significato e continuerà a significare per i cristiani e per gli uomini di buona volontà il suo modo di agire e il suo insegnamento: il grande realismo nel riconoscere i propri limiti e nello stesso tempo una continua creatività nei suoi testi. Lui ha voluto rimarcare che Gesù c’entra con tutto, con la sua conoscenza biblica e con il suo senso della storia».

Daniele Bellasio