V di Quaresima – di Lazzaro
L’immagine del mese
Safet Zec esprime in quest’opera il dramma da lui vissuto in prima persona quando, nel 1992, la guerra, che schianta la ex Jugoslavia e che colpisce con particolare drammaticità Sarajevo, la città in cui l’artista vive e lavora, lo costringe a lasciare il suo paese per trasferirsi a Venezia. Nelle opere di questo periodo la violenza è vista nella sua più intensa, umile e commossa umanità. Il bisogno di un abbraccio diventa fotogramma pregnante in cui le braccia forti e vigorose di un padre sorreggono, stringono, proteggono il corpo del figlio. I volti si perdono in uno sfondo terreo che li inghiotte come il dramma di morte che il padre vive impotente. Sullo sfondo, a sinistra, altre braccia stringono corpi inerti per indicare un dramma universale che coinvolge l’umanità da secoli. Emergono da questa “aura nera”, come la chiamerebbe Dante, solo il filo rosso che attraversa in diagonale tutta la tela e il bianco delle camicie. Il filo rosso unisce tutti coloro che vivono il dramma della perdita di un figlio. Il bianco rimanda all’innocenza, alla purezza, ma sottolinea anche il rischio che queste persone cadano in una condizione larvale di abbandono e di dimenticanza del loro dolore. (F. M.)
La paura di morire
Al pari della paura della sofferenza, la paura di morire è dentro tutti noi. Tutti ne avvertiamo il peso ma, forse, in questo momento nel quale siamo invasi tutti i giorni dalle terribili immagini della guerra, ne avvertiamo ancora maggiormente la forza. Così come non ci sentiamo mai pronti per subire la mancanza di una persona a noi cara, grande prova della vita. Così come non sappiamo mai bene come “consolare” persone a noi vicine che si trovano a soffrire per la perdita di una persona cara, talvolta, come ci ha detto anche l’immagine, di un figlio. Immagine che, come dicevo, rimanda all’attualità del periodo che stiamo vivendo, ma che ci introduce anche nel cuore dell’anno liturgico che è la Pasqua e nel dolore dei dolori: il dolore di Cristo, il dolore di Maria che perde il proprio Figlio.
Una testimonianza preziosa
Scriveva il cardinale Martini di fronte alla sua imminente morte: “ho paura non della morte in sé ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Paura di perdere il controllo del corpo e di morire soffocato. Entrare nell’oscurità fa sempre un po’ paura. Mi auguro che possa esserci qualcuno vicino a me a tenermi la mano”. Forse è anche per noi così! Forse non abbiamo paura del morire in sé, giacché sappiamo bene che ogni vita, anche la nostra, è destinata a morire. Forse abbiamo paura delle concrete modalità con cui essa avverrà. Non ci sono vie di uscita o scappatoie. Credo che tutti speriamo, in quel momento, di non essere soli, ma che ci sia qualcuno che ci tenga la mano, come teneramente osava dire Martini. Non solo auguriamocelo per noi, ma disponiamoci ad essere noi per primi coloro che faranno questo gesto, se ci sarà dato, se ci sarà possibile, per i nostri cari. Solo così si vince anche questa paura: affidandoci a Colui che, per primo, ci tiene per mano e ci chiama nella sua “casa”, ovvero nella sua comunione. Vinceremo la paura di morire solo se sapremo di affidarci al Dio della Vita. Quella eterna e più vera.
Il Vostro Parroco,