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IV di Quaresima – del cieco nato

La paura di soffrire

La domenica del cieco nato porta con sé l’inevitabile domanda: perché si soffre? Domanda espressa, nella narrazione evangelica, con l’interrogativo posto direttamente al Signore Gesù: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse così?”. È la domanda classica che mette insieme molte questioni: perché si soffre? Come si pone l’uomo di fronte al soffrire? Come si pone Dio di fronte alla sofferenza dell’uomo? Perché tutti avvertiamo che, di fronte al problema, proviamo paura. Come anche il Signore ha provato tristezza e angoscia nell’ora del suo soffrire. Davanti alla paura di soffrire, alla paura del dolore- temi radicalmente uniti anche a quello della prossima settimana, la paura di morire, – siamo davvero tutti uguali.

In punta di piedi

Il tema anima anche il dibattito civile e non solo quello religioso e ha, per forza di cose, anche un risvolto giuridico, politico, sociale. Ecco perché, di fronte a questo tema, credo che la prima e necessaria cosa sia quella di entrare in punta di piedi, sapendo che i modi di impostare la questione sono molteplici e tutti degni di essere ascoltati. Così come ha fatto il Signore Gesù nella narrazione odierna, intrattenendosi con l’uomo cieco, ma poi lasciando che si aprisse un vero e proprio dibattito a più voci tra l’uomo sanato, i genitori, i rappresentanti della sinagoga e, in fondo, tutto il popolo. Un fatto del genere, infatti, ha certamente fatto parlare tutta Gerusalemme.

Una testimonianza

Per entrare in punta di piedi, credo sia bene leggere le storie di alcuni testimoni. Sul tema si impone la figura statuaria del cardinale Bernardin, morto già da tempo, dopo essere stato ingiustamente accusato e dopo aver lottato contro il cancro. Scrisse queste mirabili parole: “subito dopo la scoperta della mia malattia, chiesi: perché, Signore, perché? Ora la mia preghiera è che io possa usare il tempo che mi rimane. Il benessere spirituale che mi è stato concesso è per essere di beneficio agli altri. Aspetto con serenità la fine della mia vita terrena e spero di insegnare come morire. Sono cresciuto con tre grandi paure: quella del cancro, quella della morte, quella di poter essere un giorno accusato falsamente. La sorte ha voluto che le dovessi affrontare tutte e che, all’improvviso, scoprissi di non avere più paura. Credo che tutto questo sia dovuto alla fede… le mie preghiere mi hanno reso più forte di quanto pensassi di essere”.

Per uscire dalla paura

Anche la parola di Dio ha riflettuto in modo molteplice e vario sulla paura della sofferenza. È la riflessione bellissima del libro di Giobbe; è la riflessione profonda del sapiente Qoelet; è la riflessione di molti personaggi biblici che hanno sperimentato sia la paura di soffrire che quella di morire. La fede ci insegna che, di fronte a questa paura, non ci sono soluzioni, strade certe da percorrere, insegnamenti da fare propri. C’è la via santa di ogni singola persona che affronta la paura di soffrire in modo diverso. Per tutti, in questa via, rimane il grande faro della Parola di Dio e della preghiera. È questo il conforto che ci assicura che non siamo mai soli nel momento della sofferenza, della lotta, della morte. Ha ragione il cardinale Bernardin: la preghiera ci rende più forti di quanto pensiamo di essere proprio nel momento in cui appare la sofferenza, o dobbiamo affrontarla, o la subiamo per gli eventi della vita. Forse dovremmo proprio ricordarcene, specialmente quando siamo in una situazione di sofferenza. Certo, poi dobbiamo esprimere le nostre idee, ed è bene che ci confrontiamo su modalità diverse di approcciare il tema e la questione. È un bene che ci domandiamo anche cosa fare sul fine vita, dialogo così acceso e complesso per le nostre società occidentali cresciute con il mito del “diritto” alla salute. Salute che è solo dono di Dio e non diritto.

Il Vostro Parroco,